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Pentidattilo, la citta' dimenticata
Penatedèktylos Luce, spazio e colore
Pentidattilo cinque dita di roccia... la mano del dio nettuno che emerge dal profondo delle acque e' rimasta li immobile pietrificata...
Questa la mia impressione giungendo in quel luogo di fiaba. Non v'è bisogno di leggere testi sulla sua storia non aggiungerebbe nulla a cio' che ti giunge semplicemente osservandola, passeggiando per le sue strade o meglio per i suo vicoli contorti, incoerenti e resi ancor più' indistinti dalla luce del sud che tanto illumina da rendere l'ambiente che ti circonda senza spazio, senza contorni... senza tempo.
La sua storia e' narrata dal buio dalle ombre che tagliano nette la luce. Questo buio rappresenta la tenacia e la sofferenza del luogo buio che indissolubilmente lega la natura con l'architettura. Si aprono cosi' ai nostri occhi buchi neri, scavati nella roccia dal tempo, che tutto assorbono, anche la luce che da essi da mattina al tramonto mai ai nostri occhi viene restituita e nella stessa maniera allo stesso modo sulle pareti delle case si aprono gli stessi spazi di buio, sguardi malinconici che vivono al presente ma in cui si legge il passato.
Nelle case abitate dal vento e dallo spazio si sente la storia o meglio si leggono le storie. Le carte da parati logore su cui ancora si distingue colore e decoro. Una sedia di foggia ormai desueta, una brocca di ceramica smaltata, unica perfetta sopravvissuta in questo luogo in cui il tempo tangibile come fosse materia segna ogni cosa. Riluce candida luna terrena illuminando il vuoto.
Osservando lo spazio mi viene in mente qualcosa, ricordo, il mio bisnonno e la sua casa, lo stesso manufatto in ceramica poggiato delicatamente su un supporto in ferro battuto, la brocca contenente l'acqua delle abluzioni mattutine, giro lo sguardo nella stanza dei miei ricordi e vedo la stessa carta da parati e la stessa sedia e tanti altri oggetti definiti niente più che paccottaglia nella mia infanzia e divenuti oggi sul filo del tempo antiquariato. Ma i ricordi si sa non sono affidabili e spesso si confondono nel presente soprattutto quando la visione di questo è legata indissolubilmente al passato. Mi rendo conto di avere di fronte un'istantanea risalente ai primi del 900 e allo stesso modo con il quale si presentano a noi le vecchie foto cosi si presentava a me quell'immagine, leggibile, logora magari con un angolino strappato. Così si scopre che anche lo spazio si può vedere e quindi leggere lo spazio comunica, dialoga qui come altrove costantemente con il nostro essere. Ci regala comodità e disagi. Si colora di note cromatiche e di profumi, si apre intorno a noi, ci accoglie come un bozzolo o ci chiude come una prigione, esprime se stesso stratificando su di sé il passaggio dei sui abitanti e ti regala avvolte per la propria unicità sensazioni particolari. Così a Pentadattilo il profumo e il sapore dolce di malinconia e fichi d'india t'avvolge. Lo spazio non è sempre lo stesso. Qui meno che mai. Si dilata e all'improvviso si contorce su se stesso come i suoi vicoli come il suo tempo.
Tutto lo spazio, la luce e la sostanza più profonda di questo luogo concorrono a creare la fiaba, la sua storia, la sua stessa incerta fondazione. Forse opera dei bizantini o forse dei greci, l'architettura stratificata che si perde nei tempi dei tempi, la sua leggenda e la sua vegetazione che come in ogni favola che si rispetti domina sull'architettura e sul tempo presente, sottolineando il passare lungo e immobile del tempo. Qui non è più l'uomo il re, ma il fico d'india quasi onnipresente. Adesso l'estate e i sui frutti rossi succosi coperti da spine svettano al sole, per me irraggiungibili, ma una piccola asciutta vecchietta mi passa davanti con un barattolo legato a un bastone, coglie il fico lo getta a terra fra l'erba lo rotola con cura e in un attimo ha valicato due confini per me in quel momento invalicabili, quello dello spazio e quello delle spine appropriandosi del saporito frutto. La vecchietta sembra divertita. Come si fa a non sapere come si colgono i fichi d'india Sono stupita ed un po' indispettita come sempre quando le soluzioni più semplici di altri risolvono gli enigmi che sembrano a noi più complicati, ma allo stesso modo non è semplice per me, spiegare a lei, la teoria del centro commerciale, del supermercato e del banco della frutta, anche perché la lingua qui non è la stessa.
Ora mi rendo conto che questo è luogo d'arte, sincero, semplice, forte, resistente e senza tempo. Amato dalla luce più chiara e dall'ombra più profonda, isolato e bellissimo. Pochi chilometri prima ero sulla Reggio Calabria agosto unico pensiero in una macchina senza aria condizionata l'afa. Poco dopo rallentiamo, uscita allo svincolo di Anna di qui ci troviamo in una strada unica stretta che sale per qualche chilometro ed ecco proprio dietro l'ultima curva Melito Porto Salvo, successivamente rinominato Pentadattilo dal greco pentedéktylos letteralmente "cinque dita", ed ecco, qui si mette piede in un posto che è altro. Che richiama alla luce anche se in se nasconde il buio che richiama la vita e insieme la morte che confonde spazzi e distanze e che in tutto questo come l'arte vive, e si fa beffe di noi destinati alla scomparsa e di tutto ciò che in verità non è, perché esiste solo parzialmente al di sotto di quella sottile linea che distingue con una crudele selezione ciò che è da ciò che non è. Così come l'arte vive ed esiste indipendente e indifferente a tutto.
Vive al di la dei suoi abitanti, ormai solo in quattro e del resto del mondo in un incantesimo perenne che ha bloccato ogni lancetta di ogni orologio, protetta dal silenzio e da una coltre di spine trasportate dal vento.
Maria Pia Biagini